Gli studenti occupano. E intanto piovono bombe.
Milano, giovedì 24 febbraio 2022
Non ci siamo.
Cari adulti, non ci siamo davvero. E non me lo spiego.
O meglio – tralasciando le reazioni scomposte di chi a prescindere non crede nei movimenti giovanili, né nell’opportunità che dei “minori” (non solo in senso strettamente anagrafico, ma in un più ampio senso sociale) esternino il loro malessere e/o dissenso aspettandosi che a questo venga offerta risposta – comprendo la delusione di quei docenti, per lo più appassionati e sinceramente interessati al benessere dei loro studenti, che avrebbero preferito continuare a cullarsi nell’idea che la loro scuola, quella in cui loro investono la suddetta passione, non venisse “presa”. È dura, lo capisco.
Ma assistere ieri sera da uditrice a un consiglio di istituto straordinario in cui i rappresentanti di quei docenti, insieme ai rappresentanti d’istituto dei genitori, avrebbero dovuto dibattere circa quanto sta accadendo nella scuola occupata da 48 ore, instaurando un dialogo con i rappresentanti degli studenti (che solo incidentalmente coincidevano con i ragazzi delegati dall’assemblea generale d’occupazione a presentare le sue istanze) mi ha depresso e allontanato dai MIEI coetanei.
Innanzitutto, il discorso è stato riportato subito dagli adulti completamente su un piano personale. E già questo, di fronte a un atto politico, è intellettualmente scorretto, oltre che controproducente.
In secondo luogo, questo sfalsamento di livello del discorso ha completamente snaturato il confronto, nel corso del quale è stato oggettivamente impossibile per i ragazzi esprimere le rivendicazioni sottoscritte in assemblea e raccolte in questi giorni in un manifesto che presto, probabilmente già nel pomeriggio di oggi, rilasceranno e chiarirà anche a dirigenza e docenti i termini esatti della protesta.
È su quel manifesto, per la cui stesura e approvazione sono stati necessari dei tempi tecnici minimi, e che avrà valore come messaggio condiviso da tutti gli studenti del liceo che aderiscono all’occupazione, che si potrà – volendo – instaurare un proficuo dibattito fra le parti.
Invece, per ben tre ore e un quarto, la discussione si è incartata e impigliata attorno a un unico tema: l’affronto personale che gli occupanti hanno prodotto nei confronti di docenti e collaboratori della scuola e l’umiliazione inflitta a questi ultimi dai ragazzi preposti a tenerli fuori dall’edificio o comunque a limitarne l’accesso e la circolazione (badate bene, io non metto in dubbio le emozioni vissute dagli insegnati, ma il fatto che queste possano fare da cartina al tornasole nel valutare il fenomeno).
Come dicevo prima? Ah, già: non ci siamo.
So che le sconfitte, soprattutto quelle che si pensa di non meritare, bruciano e corrodono da dentro. Ma questi studenti tenendo fuori voi non attaccano voi personalmente, rifletteteci. Non siete singolarmente così importanti o potenti, fate parte di un sistema (anzi due: microsistema=istituto scolastico e macrosistema=istruzione in Italia) che ha moltissime falle e innumerevoli colpe (elevate alla potenza negli ultimi due anni). Forse l’occupazione avreste dovuto progettarla voi per primi! Le barricate dovrebbero essere quelle dei docenti…
E comunque, visto che l’abbiamo rinominata, soffermiamoci un secondo sul significato della parola occupazione; io per ripassarne il senso ho scomodato la Treccani:
occupazióne s. f. [dal lat. occupatio -onis]. – 1. a. In genere, l’azione, l’operazione di occupare, cioè di prendere temporaneamente o stabilmente possesso di un luogo o di un bene, con mezzi legali o illegali, talvolta anche violenti, e il fatto di venire occupato: o. di terre, di un fondo; l’o. delle fabbriche, dell’università; o. di una scuola; o. di case, di stabili abbandonati. Nel diritto penale, o. di aziende agricole e industriali, delitto previsto dal vigente codice penale, che punisce coloro che invadano o occupino aziende col solo scopo di impedire o ostacolare lo svolgimento del lavoro.
I ragazzi hanno preso (temporaneamente) possesso del loro Liceo e ora di fatto ostacolano lo svolgimento regolare del lavoro: attenzione, però, che l’impedimento dell’attività normale della scuola non è “il solo scopo” dell’occupazione (come insinuato ovviamente da qualche adulto, per il quale mi scuso, incarnando il più classico dei cliché qualunquisti), ma un mezzo, il mezzo più forte e immediato per esercitare una pressione che generalmente i minori di cui sopra non sono in grado di esprimere.
Invece, in quel consiglio abbiamo ammorbato per ore i composti ragazzini collegati in rappresentanza dei loro co-occupanti con un tiramolla che verteva unicamente su un concetto: se ci fate entrare e fate circolare tutti liberamente – studenti, professori e personale ATA -, parliamo. Altrimenti, se limitate gli accessi, non ci saranno margini di dibattito.
Ed è stato più e più volte ribadito che questa occupazione non s’aveva da fare, che è squallida e “ricordate quanto più belle e divertenti per tutti sono state le autogestioni che abbiamo sempre concesso negli anni scorsi? Invece adesso si respira un’atmosfera così pesante…”.
Io ero abbastanza esterrefatta.
Primo: forse davvero non si vuole riconoscere ai ragazzi la capacità di attuare coscientemente un gesto politico forte. Se hanno occupato la scuola – una scuola che ha una storia di felici autogestioni – vorrà dire qualcosa, no?
Vuole dire che avevano bisogno di altro.
Vuole dire che avevano bisogno di uscire dai canali relazionali tradizionali.
Vuole dire che hanno bisogno di essere – per una volta almeno – le emittenti e che noi si diventi ricettivi riceventi.
Ma niente. Mi sembrava una contrattazione surreale. Immaginate da un lato il sindacato dei trasporti che ha indetto uno sciopero generale, dall’altro l’azienda dei tram che cerca di contrattare perché i rappresentanti dei lavoratori accettino a nome di tutti di accontentarsi di fermare gli autobus prima delle sette del mattino e dopo le 8 di sera senza interrompere mai le corse della metropolitana. Uguale.
Se non hanno preso in considerazione un’autogestione, pur sapendo che il loro istituto è sempre stato disponibile in questo senso, è perché non di quello c’era bisogno. A me pare chiaro.
Se l’atmosfera oggi è pesante, tesa, brutta e non gaia, frizzante distesa come nelle autogestioni di cui sopra, come hanno ribadito più volte dirigente e professori, è perché oggi – in assoluto – c’è ben poco da star tranquilli, gai e distesi. Tanto meno a scuola, tanto meno se hai dai 12 ai 19 anni e negli ultimi due anni nelle scalette di governi, partiti, associazioni e media hai contato meno di zero.
Ma lo vogliamo capire che questi ragazzi – tutti – devono essere risarciti?
Risarcire: 1. Compensare qualcuno di un danno materiale o morale
Perché loro di danni – materiali e morali – ne hanno collezionati parecchi.
E nossignori, rispondere che tutti noi abbiamo subito e sofferto nei due anni di pandemia non è una risposta accettabile. Non è giusta in assoluto e non è ricevibile se offerta da adulti genitori ed educatori.
Perché la nostra sofferenza (che è molta, io mi sento devastata, per esempio) non è importante.
Avete letto bene. Non è importante o comunque non è fondamentale.
Noi (gli adulti, ndr) abbiamo già vissuto quegli anni, quel momento irripetibile e indispensabile per diventare grandi, completi, efficaci.
Magari lo abbiamo vissuto male; magari non ce ne siamo fatti niente; magari qualcuno è stato sfortunato, ha sofferto, ha poi fallito e mi dispiace. Pace.
Ma loro no, loro hanno fisiologicamente bisogno – davanti a tutta una vita da vivere – di coraggio, baldanza, autostima, fierezza, entusiasmo, ideali, esperienze da singoli e collettive, occasioni culturali ed errori, vita, vita, vita e speranza.
E far finta che possano da soli recuperare tutto questo bagaglio scippatogli dal peggiore evento planetario degli ultimi 77 anni è non solo ingiusto, ma anche un po’ immorale.
Il tutto in un momento storico in cui un pazzo criminale (di cui svariati personaggi espressione della politica italiana “strutturata” si definiscono senza pudore “amici”) si mette a bombardare una capitale europea… Ma ci rendiamo conto?
Ma dopo il Covid, voi avreste mai pensato che una nazione “civile” potesse anche solo pensare alla guerra? Il mondo è allo sbando. Sembra seguire una sceneggiatura dei Monty Python, solo che non c’è nulla da ridere.
E i ragazzi hanno ragione da vendere.
I loro disagio psicologico ci deve commuovere e svegliare.
Qualche adulto ieri sera argomentava ribadendo di provare quello stesso disagio, di fatto sminuendo così il messaggio che gli studenti cercavano di far passare.
Stiamo male anche noi adulti. Ok. E allora? Per questo diventa meno prioritario andare in soccorso dei più giovani? Ci hanno dato anche il microbonus psicologo… cerchiamo di farci aiutare, cerchiamo di aiutarci fra di noi, ma in buona sostanza: chissenefrega. Noi siamo adulti, appunto, lo siamo già diventati abbiamo già avuto le nostre esperienze formative e le nostre occasioni (sì, miei cari, contano anche quelle perse!).
Com’è che ancora non è chiaro a tutti che sono i più giovani quelli da imbarcare per primi sull’arca quando arriva il finimondo?
E se non ci sarà posto anche per noi, amen! Ci penseranno loro a ripopolare il pianeta, non certo le mie vecchie ovaie o qualche testicolo avvizzito.
E invece, dopo due anni che hanno tolto ai ragazzi più di quanto vogliamo ammettere, ci si stupisce e ci si offende pure perché anche gli studenti del Volta hanno aderito a un movimento di mobilitazione di respiro nazionale rientrando nella staffetta delle occupazioni dei licei milanesi.
E si tenta anche di sminuirli, accusandoli di aver improvvisato il tutto, di aver seguito un’onda acriticamente. Anche se non è vero, anche se chiunque abbia tenuto le orecchie e gli occhi aperti, persino all’esterno della scuola e senza nemmeno avere approfondite conversazioni con i propri figli adolescenti, sa che i ragazzi lavoravano da settimane, anzi, da diversi mesi su questi temi, approfondendo fra le altre anche la possibilità di occupare, informandosi e discutendo in assemblea di molti dettagli, compresi quelli legali.
Invece, gli adulti con diritto di parola ieri sera hanno parlato di una frattura difficilmente sanabile creata, in un ambiente prima privo di grandi problematiche relazionali, dalla decisione degli studenti di occupare la scuola e tenere fede alle limitazioni di azione e movimento che l’occupazione sottende.
Ora, io non dubito dell’intensità del loro malessere di fronte alla perdita di controllo che questo comporta, né dei mal di pancia connessi ai mille problematici corollari, a partire dalle responsabilità legali.
Ma sono sorpresa che denuncino tale frattura neonata e non vedano invece che la frattura – larga, profonda – non solo era preesistente, ma è anche la prima molla dell’azione studentesca.
Nel corso della lunghissima riunione il Preside a un certo punto ha detto una cosa importantissima, raccontando, fra l’altro, di aver fatto lo stesso ragionamento ad alta voce in aula magna, il primo giorno di occupazione, di fronte ai suoi docenti: “dopo i vari periodi di lockdown e didattica distanza, noi abbiamo fatto un errore grave – o almeno lo ha fatto qualcuno di noi, anche se io ho cercato di evitarlo. Quando li abbiamo riaccolti a scuola a settembre 2020, e poi nella primavera 2021 e all’inizio di questo anno scolastico, li attendevamo con le zanne appuntite, assetati di voti, con l’ossessione del ritardo sui programmi da recuperare… Ci siamo comportati come se nulla fosse successo… A questo riguardo abbiamo molto su cui interrogarci…”.
Parole sacrosante, lucidissime, che hanno colto fra l’altro in pieno il nocciolo duro di magone che molti dei nostri figli ora si portano dentro nella loro relazione con l’istituzione scolastica.
Eppure, quelle parole sono apparse discordanti rispetto a tutti gli altri contenuti espressi nel corso dell’incontro. Come se fosse l’ammissione di una colpa non direttamente correlata alle reazioni degli studenti e quindi insufficiente a indurre gli adulti coinvolti a mettersi finalmente in ascolto comprendendo l’eccezionalità del contesto in cui è stata progettata l’occupazione.
E invece il punto è tutto lì. Nel contesto. È il contesto (micro=Volta e macro=scuola italiana), che consente la lettura di quanto sta accadendo in questi giorni. Il contesto attuale è incontrovertibilmente eccezionale ed eccezionale – coerentemente – è stata anche la reazione degli studenti.
Anche quella dei privilegiati studenti del Volta.
Che tanto privilegiati, ormai, non si sentono più.
Questo è stato fra l’altro uno dei pochi concetti che il monotematico confronto di ieri ha consentito ai ragazzi di esprimere (in più di 180 minuti, infatti, nessuno degli aventi diritto di parola ha pensato di farsi spiegare i punti cardine della loro agitazione): il Volta è un Liceo molto serio, che pone grandi aspettative anche a livello prettamente prestazionale; ma i suoi studenti – quelli che ce la facevano, perché comunque non è scontato uscirne felicemente – lo hanno sempre amato perché l’insieme di attività extrascolastiche, occasioni culturali, sociali, di approfondimento, di divertimento, di vita in tante accezioni che la scuola offriva ripagava dell’impegno richiesto.
Ma negli ultimi due anni, hanno spiegato i ragazzi molto chiaramente, tutto questo è scomparso, senza che sull’altro fronte mutasse o si “aggiustasse” nulla; come ha detto lo stesso Preside: gli adulti si sono comportati come se nulla fosse successo.
Allora, io mi chiedo, chi è il responsabile della frattura, dell’allontanamento fra docenti e studenti?
È dei ragazzi che hanno alzato la testa e la voce oggi?
Oppure è degli insegnanti e degli adulti più in generale (dal Ministro in giù) che li hanno lasciati al palo, a raccapezzarsi dopo due anni di limbo con una realtà che non riconoscevano più, andando avanti “come se nulla fosse”?
Io un’opinione a riguardo ce l’ho e non pretendo che sia condivisa da tutti, ma credo di vedere almeno una cosa abbastanza chiaramente: quelli rimasti indietro, cari miei, siamo noi “grandi”, tanto presi in alcuni casi dal tirar dritto a tutti i costi da non accorgerci di aver imboccato la strada sbagliata.
E intanto piovono bombe.
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